Comunicazione
Per un pugno di like: intervista al giornalista Simone Cosimi
30 Maggio 2020
Qual è l’origine del pulsante Mi piace su Facebook? Perché non esiste una formula equivalente, ma contraria? Il social di Mark Zuckerberg in Italia esiste dal 2008, ma nel giro di un decennio ha cambiato non soltanto il nostro modo di comunicare, ma anche di esprimere il pensiero e, soprattutto, il dissenso.
Per capirne di più, abbiamo fatto una chiacchierata con Simone Cosimi, che ha appena dato alle stampe un libro dal titolo esplicito: Per un pugno di like (Città Nuova, 2020). Cosimi, giornalista professionista, collabora con numerose testate nazionali fra cui La Repubblica, D, Wired, VanityFair.it, Oggi ed Esquire. Ha scritto due saggi con lo psicologo Alberto Rossetti: “Nasci, cresci e posta. I social network sono pieni di bambini: chi li protegge?” (Città Nuova, 2017) e “Cyberbullismo” (Città Nuova, 2018). Si occupa di tecnologia, innovazione, cultura e territori di confine, spingendo verso un approccio multidisciplinare. Già redattore del mensile culturale Inside Art, per cui ha curato cataloghi e pubblicazioni come il trimestrale Sofà.
Com’è nata l’idea del tuo ultimo libro?
“L’idea è nata, da un lato dal lavoro che svolgo, ormai, da tanti anni, seguendo i temi degli ambienti digitali, dei social network e dei social media, dall’altro è stata la naturale evoluzione dei saggi precedenti che ho scritto con lo psicologo Alberto Rossetti. In qualche maniera, questo è il proseguimento, perché allarga il tiro. Dal rapporto tra social network e minori, dal fenomeno del cyberbullismo, per me è stato necessario indagare la storia e l’evoluzione del Mi piace, di come quel tipo di pietra miliare delle piattaforme sociali abbia segnato tutti gli altri ambienti, attraverso una reaction, un cuoricino, ma alla fine rispondendo alle medesime dinamiche”.
Qual è la storia del pulsante like su Facebook? Perché, secondo te, questa parola funziona?
“Il like affonda le sue radici negli studi e nelle indagini del mondo pubblicitario degli anni Novanta, che si chiamano like studies o like economy. Ciò viene recuperato e implementato da Facebook all’interno della sua piattaforma. Di fatto, con l’arrivo del Mi piace, il social di Zuckerberg comincia a monetizzare davvero. Tecnicamente, l’espressione non nasce su Facebook, ma su un aggregatore, che forse molti hanno dimenticato, che si chiamava FriendFeed, acquistato da Facebook nell’agosto 2009 e chiuso nel 2015.
Il Mi piace, allora, è frutto di un doppio canale storico: da una parte gli studi pubblicitari, dalla constatazione del fatto che il ricordo gioca un ruolo fondamentale nei processi di acquisto; dall’altra parte la convinzione che, nel momento in cui sono gli stessi utenti a dichiarare i propri gusti, la capacità di profilarli si impenna a dismisura”.
Esprimere una preferenza sui social network stimola il confronto o lo appiattisce?
“Esprimere una preferenza, sicuramente, stimola il confronto. Il problema è che, se quella preferenza nel senso unico e se l’intero ambiente digitale in cui ci si muove è costruito a senso unico, come una città con una sola circonvallazione, dove siamo costretti a passare sempre dallo stesso punto e a fare il giro per ripartire, è evidente che il dibattito sia fortemente penalizzato. Su Facebook, in sostanza, chiunque voglia opporsi ad un contenuto è costretto a condividerlo e a commentarlo e, in generale, a spingere al rialzo il suo engagement, il suo coinvolgimento. Non c’è uno strumento uguale e contrario, simmetrico, con cui esprimere con grande semplicità e velocità il proprio dissenso. Il mio ultimo libro è diventato, possiamo dire, anche un libro politico”.
C’è sempre stato il bisogno da parte dei brand di conoscere l’opinione del consumatore. Quale probabilità c’è che un like corrisponda ad un acquisto?
“La probabilità che un like corrisponda ad un acquisto è molto bassa. Alle piattaforme non interessa tanto la cosiddetta convertion, quanto poter vendere ai brand un target molto ben profilato; d’altronde, basta impostare una qualsiasi campagna promozionale su Facebook o sugli altri social, per rendersi conto della granularità a cui si può arrivare con i dati in loro possesso. Più che fare di ogni like un acquisto, è interessante fare di ogni like un fan, un pezzetto in più di consapevolezza, di brand awareness e profilazione dell’utente a cui sottoporre qualcosa di simile in futuro”.
Qual è il tuo rapporto con i social network? Ce n’è uno che utilizzi di più e, se sì, per quale motivo?
“Il mio rapporto con i social network è molto forte. Ci vivo e ci sono cresciuto, anche con le piattaforme più vecchie, come Myspace, le prime forme di chat degli anni Novanta, o anche quelle integrate in piattaforme come Napster. Ovviamente, lavorando nella comunicazione e scrivendo di questi argomenti, per me la presenza sui social è quasi obbligata. Si tratta di ambienti che cambiano in continuazione, con l’integrazione di numerose funzioni, gamification, novità, caratteristiche varie, per cui vanno frequentati per orientarsi.
Ci sono piattaforme che amo meno, ma sono costretto, comunque, ad avere i miei account. Studio, anche se non utilizzo un social in modo attivo, mi pongo come osservatore molto attento. Uso, soprattutto, Facebook, Twitter, Instagram, che articolo in modo diverso secondo modalità, funzioni e contenuti ad hoc: Facebook come una sorta di raccordo con le persone più strette, Twitter in chiave un po’ più istituzionale ed Instagram per lo svago, soprattutto attraverso le storie, che stanno diventando un nuovo modo di tenersi informati. Mi diverte molto TikTok, più da osservatore che da utente attivo. Sono onnivoro!”.
Informazione e social: è vero che questi ultimi, talvolta, intralciano il lavoro del giornalista, diffondendo in anticipo notizie non confermate?
“I social non ostacolano l’informazione, ma hanno cambiato le dinamiche della distribuzione delle notizie. Da una parte hanno reso un po’ tutti i reporter giornalisti e commentatori – per carità, ciò rientra nei diritti costituzionali di libertà di parola – dall’altra hanno, per un lungo periodo e tutt’ora, in alcuni casi, buggerato diverse testate, perché nella corsa al rilancio al post ad arrivare primi, in realtà, si è passati dalla pubblicazione sul sito al rilancio immediato sulle piattaforme social, con una circolazione incontrollata.
Ora mi sembra che, finalmente, si stiano prendendo delle misure. Rimane il fatto che i social abbiano, comunque, un’intrinseca capacità di inserirsi all’interno del lavoro giornalistico e possano essere utilizzati anche in modo positivo. Penso, per esempio, al fact checking, attraverso cui è possibile circondare le notizie non verificate. All’inizio è stato un problema di sfida di tempi, adesso la competenza è salita e le dinamiche stanno cambiando”.