Giornalismo
Il media monitoring svela come si comunica la violenza di genere
3 Ottobre 2020
Non si muore per amore. Non per mano di un partner. Eppure in Italia i femminicidi sono in aumento e l’Ordine nazionale dei giornalisti ha deciso di correre ai ripari. È tempo che i media imparino a raccontare le storie delle donne vittime della violenza senza giustificare gli assassini. È tempo di rinnovare quel codice narrativo che indugia sui problemi dei colpevoli, dimenticando il calvario delle parti lese.
Per educare i giornalisti all’uso di un nuovo linguaggio, l’Ordine ha organizzato in questi giorni un corso di formazione che, per la prima volta in Italia, obbliga i cronisti a rileggere quanto hanno scritto e detto, utilizzando stereotipi sbagliati. Il corso, online, è tenuto da Monia Azzalini, ricercatrice responsabile del settore Media e gender dell’Osservatorio di Pavia, da Pina Nalli, ordinaria in Sociologia presso l’università di Bologna e da Silvia Garambois, giornalista di razza e presidente dell’associazione Giulia (acronimo di Giornaliste unite, libere e autonome). Tre lezioni magistrali, basate su monitoraggi dei media tradizionali e digitali, che svelano quanto sia arretrato il mondo dell’informazione quando deve rappresentare una violenza di genere.
Le donne? Invisibili sui media
Il pensiero è maschio, mentre il corpo è femmina? Sembrerebbe di sì, visto lo spazio limitato che le donne ottengono ancora sui giornali, in televisione e sui social. Mediamente, le donne sono presenti in piccola percentuale (24 per cento), mentre gli uomini giocano da protagonisti, raggiungendo la vetta del 76 per cento. Un dato indicativo riguarda le quote rosa della politica: nell’anno 2015, le donne rappresentavano il 30 per cento del Parlamento, ma erano considerate fonte di notizia soltanto 15 volte su cento. Nonostante svolgessero un lavoro importante, le elette risultavano quasi invisibili.
Potrebbero bastare questi dati a far capire la genesi del femminicidio. Il termine – coniato nel 2012 da un gruppo di cronisti e adottato dalla legge nel 2013 – indica un fenomeno che non attiene soltanto al sesso, ma si sviluppa anche a livello sociale e culturale. Secondo la Convenzione di Istanbul, redatta dal Consiglio d’Europa nel 2011 e recepita dall’Italia nel 2013, la violenza di genere – che spesso sfocia nel femminicidio – può essere fisica o psicologica, avvenire tra le mura domestiche, riguardare minori di 18 anni. In ogni caso è una violenza contro i diritti umani e, come tale, deve essere narrata.
Gli errori dell’informazione
Quali sono gli errori che commettono i giornalisti? Trasformando la storia in notizia, i professionisti dell’informazione sono obbligati a collocarla dentro una cornice. E qui comincia il percorso minato verso il “romanticismo della violenza”, secondo la definizione di Pina Lalli. Ma di romantico in queste vicende drammatiche non c’è nulla. La studiosa, che dirige anche il centro di ricerche CoMEDIAs (Comunicazione, media, spazio pubblico) ha monitorato per anni quattro quotidiani cartacei e media digitali, raccogliendo dati sconfortanti.
In primo luogo, Nalli ha scoperto che non tutti i femminicidi hanno dignità di notizia. Su 408 donne uccise nel periodo che ha considerato, 215 hanno perduto la vita per mano del partner, ma soltanto il 63 per cento delle storie ha avuto risonanza e il dato è sceso addirittura al 37 per cento sul cartaceo.
Il femminicidio interessa i media quando i protagonisti sono molto giovani, la storia è tinta di giallo, c’è efferatezza. Se la donna uccisa è anziana, soltanto 27 volte su cento il caso finisce sui giornali. Tra i due estremi, si colloca la triste routine del delitto spacciato per passionale.
Fatti, non commenti
Qui, immancabilmente, il cronista dimentica la vittima e concentra la sua attenzione sul colpevole. Si scava nella vita dell’uomo come fosse un romanzo e si inventano diagnosi che fanno rabbrividire gli esperti, come “raptus di gelosia”, “amore malato”, “perdita di controllo”. Involontariamente, il cronista giustifica l’autore del femminicidio. Ma non basta. Quando rivolge il suo sguardo alla donna, chi scrive fa scattare il meccanismo estetico dei film di Quentin Tarantino. Si evidenzia la bellezza della vittima e si stigmatizza il suo comportamento. Se emerge che la poveretta non aveva mai denunciato il marito, ecco la sua colpevolizzazione. Se agli atti risultano segnalazioni, si attaccano i servizi sociali e le forze dell’ordine.
Inutilmente Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria, ha dichiarato tante volte che il raptus non esiste, che l’amore non uccide, che la gelosia non è una scusa per sottomettere ed annientare un essere umano, anche perché il codice penale all’articolo 90 afferma che “gli stati emotivi e passionali non diminuiscono l’imputabilità”. Sono ancora tanti, troppi, gli articoli che evitano la parola “raptus”, ma la sostituiscono con “perdita della testa”. Anche in casi recenti il frame è lo stesso.
Deontologia e non solo
Nonostante il “Manifesto di Venezia“, un decalogo che i giornalisti hanno redatto nel 2017 per impegnarsi ad utilizzare una scrittura rispettosa della donna, il problema resta. Ogni giorno sulla stampa appaiono titoli e fotografie inappropriate. Recentissimo il caso della donna uccisa dal marito che, secondo i titoli di diverse testate, “stava male, per colpa del lockdown”.
Altro errore è quello di pescare immagini da Facebook. Non esistono ancora linee guida che aiutino in questo settore i giornalisti, ma il buonsenso dovrebbe indurre a scartare almeno le foto da famigliola del Mulino Bianco. Assolutamente vietato, dal 2016, l’uso di termini come “baby-squillo” nelle vicende di prostituzione minorile. E qui è intervenuto anche l’Ordine nazionale dei giornalisti per affermare che l’uso di simili espressioni viola la Carta di Treviso.
Il cammino verso un linguaggio che non oltraggi le vittime della violenza è cominciato. Servirà tempo per adottarlo con naturalezza, perché lunga e mai finita è la lotta delle donne per ottenere pari opportunità. Comunità europea, Osservatorio di Pavia, Giulia e Fondazione Bracco sono al lavoro per realizzare una banca dati online che si chiamerà “Cento donne contro gli stereotipi”. Segnalateci le parole che non volete più leggere, né ascoltare. Informare è un valore della democrazia e l’uso corretto dei termini è il nostro mestiere.